XII - L'APPELLO

Opera di carnefici assassini,
di entusiasti fanatici soldati,
di scuri sgherri e perfidi aguzzini,

di un popolo di eroici soldati
in lucida e fantastica rincorsa,
ai vertici d'impero destinati,

che, stretta Europa in una dura morsa,
per vetusta di secoli memoria,
degenerò nella sua folle corsa,

nell'ordine supremo della Storia
che i figli avea del Reich predestinati
al dominio del mondo e alla sua gloria.

Nudi, lividi, inermi, disperati,
giovani e vecchi ed ammalati infermi,
sul piazzale del campo radunati,

diritti, in file rettilinee, fermi,
tra acquitrini e mortifere paludi
da colpi troppi istupiditi, inermi,

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di sé facendo delle mani scudi,
immobili, in bell'ordine allineati
(vigili stando d'ogni parte crudi

manipoli di SS e di soldati!),
turba diseredata di reietti
serrati e stretti da banditi armati.

Maleodoranti prigionieri infetti,
per destino di guitti miserando,
guardandosi l'un l'altro circospetti,

ottemperando docili al comando
sottesso grigio indifferente cielo,
cacciati senza remissione al bando,

da crudo forte attanagliati gelo
(o canicola ardente di stagione!
pel medesimo inferno parallelo!),

per tedesca satanica elezione
di stirpe fatta dimidiata mezza
per millenaria storica ragione,

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per cruda filosofica certezza
mandati, senza titubanza, a morte
con folle matematica esattezza.

E ciascun della turba immota, a sorte,
tratto di fuor da un numero di ferro
(in un silenzio allucinato forte!),

stentorea d'un stramaledetto sgherro
(ad un compito là d'infamia immane,
voce appellante rigida di ferro!)

sentiva in tutte le sue fibre umane,
rabbrividendo alla pronunzia atroce,
lo sguardo a terra inebetito inane,

irosa, rauca, intollerabil voce,
dura fischiando come di staffile
per inchiodare i nominati in croce.

E gli appellati dalla sorte ostile,
come automi sortiti dalle righe,
in un silenzio sepolcrale vile,

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falciati là come mature spighe
per quell'appello barbaro e feroce,
nulla facendo di sé gli altri dighe,

nulla ignorando della sorte atroce
cui eran fuorusciti destinati,
né di pietà levando ombra di voce.

E a passi lenti, scuri, strascicati
sotto il nerbo durissimo di bue,
(inebetiti immobili restati

fissati al suolo disperati due,
nel terrore dell'ultima minaccia,
che di pietra li avea fatti ambedue!),

da sopraggiunti militi alla caccia
ghermiti senza remore e riguardi,
la schiena a terra curva e più la faccia,

sottessi duri assatanati sguardi
strisciavan, nulla proferendo verbo,
senza più indugi, senza più ritardi.

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Spettacol più d'ogni altro orrido acerbo
di demoni sortiti dagli abissi,
scudiscianti di bue robusto nerbo,

dagli occhi truci avvelenati fissi,
tra staffili levatisi fischianti,
cavalieri d'oscura apocalissi,

su quelle bocche spalancate urlanti,
mute, per il terrore e la paura
d'umani corpi aggrovigliati ansanti.

Ed in giorni di pena disperati,
logora a strisce postasi casacca,
di furto, tra quei militi e soldati,

nomade stata misera baldracca,
scura bagascia, femmina perduta,
stremata, esausta, rifinita, stracca,

di guardie e sentinelle prostituta,
giaciglio fatto di qualunque strame
per furia di libidine compiuta,

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in lotta sempiterna con la fame,
ingiuriata, scacciata, scudisciata,
per trattamento di vergogna infame,

già per disperazion moltiplicata
di forze, per prodezza temeraria,
si avanzò, per le prove esacerbata,

Reduci veterani dell'inferno
di Russia, per orribile inclemenza,
nel tremendo rigore dell'inverno,

pietà nulla mostravano o indulgenza
per quella gente con la morte addosso
ma suprema spietata indifferenza,

del campo a estremità giunti a ridosso,
per modo grave di castigo alterno,
col fango ancora congelato addosso.

E in quel mondo geometrico moderno,
d'ordine nuovo nero orripilante,
esempio inimitabile d'inferno,

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da pietà colta immensa lacerante
in quell'aria sospesa immobil scura
per quello straccio livido tremante,

di andatura malcerta malsicura,
di piombo a stento trascinando i piedi,
tra compagni di pena e di sventura,

di lingue varie e discordanti fedi,
giunti strisciando in derisione estrema,
tra i denti marci biascicando preci,

d'orrore presi per la sorte estrema,
di nero preda ismisurato ragno,
del destino di Giuda orrido emblema,

sul guitto miserabile compagno,
tentando estremo disperato abbraccio
la donna stramazzò senza più lagno.

E nel confuso sopraggiunto impaccio,
colui scoppiato a piangere dirotto,
da sgherro fu ghermito o da bravaccio

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che senza proferir verbo né motto,
duramente sferzò quel poveraccio
che lacrimava senza fine sotto,

stretto avvinghiato alla sua donna in braccio,
gemendo, da percosse istupidito,
che piovevano giù senza altro impaccio,

ricacciato nel gruppo, sbigottito,
a senso di pietà riottoso sordo
per quel guitto così grave colpito.

Colui gemeva disperato, lordo
di sangue, tra lo strazio e l'agonia,
ma solo forse della vita ingordo,

per barbara moderna epifania
di tratta d'internati prigionieri
per oscura teutonica follia,

da militi dannati a morte neri
a fumanti camini apparecchiati
da guardiani e zelanti carcerieri,

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da militi SS e da soldati,
da una forza invincibile suprema
a compiti d'inferno destinati,

dannata compagnia d'inferno emblema
per accesi e non mai più spenti forni,
da rabbia spinti antisemita estrema,

per infami vie più scuri soggiorni
di 'commandos' di pochi disperati
che nulla conoscevano ritorni,

testé, nudi, con ferri arroventati
marchiati a fuoco nella viva carne,
da forni divorati arsi e bruciati

da cui cenere solo e fumo trarne.